Letteratura

I miei attacchi di sindrome di Stendhal di fronte a un racconto di Borges

Siamo quel che siamo perché ci ricordiamo come eravamo o perché abbiamo dimenticato come avremmo potuto essere? È difficile decidere se la nostra identità sia fatta di memoria o di oblio. Io tendo a pensare che si componga di entrambi, ma ciò che più mi affascina è il dimenticare, per il semplice motivo che non posso conoscere ciò che ho dimenticato. E allora la faccenda si fa subito più interessante.

1215d85cd6abcc3fdd774592cd7a7420_w600_h_mw_mh_cs_cx_cyHo letto L’altro di Borges e mi è venuta voglia di uscire di casa e correre fino a sfinirmi per smaltire la potenza delle sue parole. La sua è una scrittura che non lascia mai indifferenti. E non venitemi a dire che non vi piace, perché non è un’affermazione conciliabile con l’esistenza tangibile della letteratura sulla Terra. Se pensate che non vi piaccia, è perché non avete capito niente. Se non l’avete mai letto, fatelo.

Borges racconta un breve incontro. Seduto su una panchina a Cambridge, intrattiene una conversazione con se stesso, il suo sé più giovane di molti anni seduto a sua volta su una panchina, ma a Ginevra. Il Borges anziano è stupito ma curioso, il Borges giovane sembra indispettito e diffidente. La maestosa genialità dello scrittore strepita fin dall’incipit:

Il fatto accadde nel febbraio 1969 a Cambridge, a nord di Boston. Non l’ho annotato subito perché all’inizio mi ero proposto di dimenticarlo, per non perdere la ragione. Ora, nel 1972, penso che se lo scrivo gli altri lo leggeranno come un racconto e forse, con gli anni, lo diventerà anche per me.

Ci sono scrittori che non sono in grado di fare in dieci libri ciò che Borges fa in tre righe. Parla di un ricordo che ha cercato di cancellare, come se il dimenticare potesse essere un’azione volontaria. E vorrebbe farlo per non perdere la ragione, ma ora sta ricordando e sta scrivendo quello che ricorda: vuol dire forse che ha perso la ragione? Borges pensa che, trascrivendo ciò che gli è accaduto, il ricordo possa trasformarsi in racconto (viene da dire in finzione, ricordando il titolo di un’altra sua raccolta), così da essere letto come opera di fantasia, non reale. Ma, non basta. Egli pensa, quasi spera, che il suo ricordo possa diventare racconto anche per lui stesso. Abbandonata l’idea del dimenticare, che si è rivelata fallimentare, egli pensa che la soluzione ultima potrebbe essere trasformare il ricordo di un’esperienza reale in ricordo di una vicenda inventata. L’effetto sul lettore che termina il racconto è strabiliante: io stessa non ho potuto fare a meno di chiedermi “ma gli sarà successo davvero?”. Borges ti fa dubitare della realtà, ti mette in crisi. E lo fa con un racconto di nove pagine.

Ma parlare di memoria e del confine tra realtà e fantasia non basta. Si mette in mezzo anche l’idea che sia stato tutto un sogno. Ai due Borges viene naturale chiedersi “e se stessimo sognando?”. L’anziano ne dubita, il giovane si agita. Nessuno dei due ha una vera risposta, ma è il più vecchio che cerca di rassicurare se stesso e l’altro, parlando di identità (aggiungete un altro tema all’elenco di quelli scaturiti da questo racconto):

In fin dei conti, al risveglio, non c’è nessuno che non incontri se stesso. È quello che ci sta accadendo ora, solo che siamo in due.

L’emozione che mi provoca questo autore mi fa tremare le mani. Non scherzo. Riuscite a rendervi conto di ciò che è contenuto in queste due frasi? Il sogno come fuga, il risveglio come riconoscimento di se stessi, della propria identità, dalla quale non possiamo scappare se non attraverso la fantasia e, appunto, il sogno; e poi il gran finale: su quella panchina un se stesso è seduto accanto ad un altro se stesso. È il paradosso di un identità (che per definizione è qualcosa di sempre uguale a se stessa) scissa ma unica, un’identità che inevitabilmente esiste ma che non può fare a meno di cambiare, pur rimanendo sempre se stessa. Ed è questa presenza, la constatazione del riconoscimento reciproco, che fa dire al Borges più vecchio “questo non è un sogno”. Essi si riconoscono a vicenda come se stessi, quindi sono svegli, perché è nel risveglio che ci si trova di fronte al sé.

Mi rendo conto del groviglio che ho scritto, ma questo è Borges. Non esistono confini nella sua scrittura: nei suoi racconti realtà, fantasia, sogno, errore, ricordo sono dimensioni fluide, che scorrono l’una dentro l’altra senza creare attrito.

Ho riflettuto molto su questo incontro, che non ho mai raccontato a nessuno. Credo di aver scoperto la chiave. L’incontro fu reale, ma l’altro conversò con me in sogno e riuscì così a dimenticarmi; io conversai con lui durante la veglia e il ricordo mi tormenta ancora.

Capite cosa intendo? Ora smetto di scrivere, sono troppo sconvolta.

13 pensieri riguardo “I miei attacchi di sindrome di Stendhal di fronte a un racconto di Borges

  1. Ho appena realizzato che nella mia esperienza di lettura c’è una lacuna gigante; questa lacuna si chiama Borges e adesso sento un grande bisogno di colmarla. Di sicuro andrò a recuperare quest’opera (a proposito è L’altro o Il libro di sabbia?), in più cosa mi consigli?

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    1. Allora, il racconto di cui ho parlato si intitola “L’altro”, contenuto nella raccolta “Il libro di sabbia”. Non ho ancora terminato di leggerlo 🙂 Poi ti consiglio un’altra sua raccolta, “Finzioni”, credo la più famosa, che contiene “La biblioteca di Babele”.

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  2. Ho avuto la stessa identica sensazione leggendo L’Aleph (caldamente consigliato, almeno secondo il mio modesto parere): Borges è uno dei pochi Grandi della letteratura che riesce ad inserire in un contesto quasi onirico perle di grande lucidità. A fronte di alcune riflessioni assolutamente innovative, e nondimeno totalmente sensate e condivisibili, mi è venuto in mente un solo aggettivo: geniale. 🙂

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